Come valorizzare la cultura professionale dei commercialisti: intervista ad Alessandro Savorana

Tempo di lettura: 5 minuti

Ho voluto intervistare il Dott. Alessandro Savorana, Commercialista e Presidente del Comitato Scientifico del Centro Studi AIDC a Milano per saperne di più su questa professione e per conoscere i progetti del Centro Studi.

Da quale esigenza e con quali obiettivi è nato il Centro Studi Aidc?

Il Centro Studi è stato istituito poco più di un anno fa. Il progetto consiste nella fondamentale e totale apertura all’esterno verso enti pubblici e privati, associazioni di categoria, imprenditoriali o professionali, università, volto al confronto, alla collaborazione e alla condivisione di idee e soluzioni. In questo modo i temi di studio potranno qualitativamente distinguersi. Si tratta, in sostanza, d’individuare argomenti d’interesse da affrontare “insieme” agli altri players delle materie giuridiche ed economiche e veicolarne i contenuti attraverso pubblicazioni, convegni, seminari.

Aprirsi all’esterno significa anche uscire dall’autoreferenzialità, col fine di ampliare le nostre conoscenze: più ci si confronta più si impara e la conoscenza, il sapere, è sempre un vantaggio.

Il Centro Studi ha, quindi, un’esclusiva impronta “tecnica” e l’obiettivo è quello della valorizzazione della cultura professionale, senza per questo rinunciare ad essere un “serbatoio di pensiero” (un think tank), propositivo di soluzioni (anche legislative) nelle materie economico-giuridiche.

Com’era il mestiere di commercialista quando hai cominciato e com’è ora?

Quando ho iniziato c’era un forte riconoscimento per questa professione e altrettanto forte era la richiesta di questa figura in un contesto di economia in crescita. Allora, inoltre, c’era la possibilità di poter gestire contemporaneamente diverse attività: dalla consulenza aziendale a quella societaria e tributaria, ai bilanci, ecc… C’era oltretutto un dialogo più stretto con i nostri clienti e legato ad un reciproco scambio di esperienze e di competenze. Oggi, per molte delle attività che svolgiamo, la percezione è quella di una commodity a causa della forte concorrenza da parte di soggetti che offrono i propri servizi senza però avere il nostro background professionale. Occorre infatti pensare che il Dottore Commercialista ha una piano di studi universitario, affronta un esame di Stato, ha un obbligo di aggiornamento continuo, adotta un codice deontologico ed è soggetto disciplina. La percezione come commodity è un problema della nostra categoria, nonostante i nostri servizi siano ad alto valore aggiunto.

Il problema si è creato in base all’evoluzione del mercato negli ultimi 20 anni: la domanda chiedeva determinate prestazioni, soprattutto concentrate nella materia fiscale e nella tenuta della contabilità, oltre ai connessi adempimenti. Il nostro errore è forse stato quello di non aver avvertito che questa richiesta, anche prestata in “outsourcing”, alla lunga non avrebbe premiato, che era necessario rimanere ancorati alla nostra anima di aziendalisti, puntare sulle specializzazioni e all’aggregazione in studi associati, in modo da ampliare la tipologia dei servizi di consulenza ad alto valore aggiunto da offrire alla clientela.

Luca Brambilla intervista Alessandro Savorana sul Centro Studi Aidc

Come ritiene che potreste uscire da questa situazione?

Esprimo delle opinioni molto personali. In primo luogo è tempo che al Dottore commercialista sia riconosciuta una precisa identità dell’attività attraverso una riserva di legge delle competenze nelle materie economico-giuridiche, riserva che non abbiamo.

La svolta della riserva di legge e il carattere pubblico della professione rappresentano il futuro ed è necessario per la nostra categoria richiederla. Inoltre, occorre pensare a un quadro di riferimento della nostra professione orientato al futuro, a favore soprattutto dei giovani, concentrando l’azione in attive proposte per ampliare la nostra attività. In sostanza occorre ottenere un riconoscimento a svolgere prestazioni che oggi non possiamo finalizzare, in quanto precluse, in un virtuoso mercato aperto alle “competenze concorrenti” con altre professioni regolamentate. Quest’ultimo è un tema che sostengo da anni.

Infine, dobbiamo tendere sempre più alla specializzazione in un’ottica di posizionamento strategico. Lo scibile delle conoscenze è talmente ampio da imporre delle scelte d’indirizzo e conseguenti nuovi piani organizzativi. Occorre fare rete, aggregarsi, concentrarsi, sfruttando diverse competenze e specializzazioni. Lo studio multidisciplinare è, a mio parere, una strategia da perseguire. Oggi lo studio individuale difficilmente può essere in grado di far fronte alle esigenze del mercato e, in futuro, temo sia destinato a un lento ma inesorabile declino.

Ad ogni modo, il futuro della professione è un ritorno al passato: dobbiamo tornare ad essere più vicini alle dinamiche aziendali, a dialogare con le imprese, supportarle nelle decisioni strategiche, monitorarne l’andamento, anche in funzione di prevenire eventuali situazioni di difficoltà. Vero che molto dipende dalla tipologia della clientela: ma i numeri sono numeri e, se correttamente analizzati e interpretati, consentono di essere d’ausilio agli imprenditori nel valutare le decisioni da adottare.

Quali sono le Soft Skills necessarie a compiere questa rivoluzione di condivisione?

Le Soft Skills che io vedo necessarie, anche in prospettiva futura, sono tre.

Innanzitutto non basta più interpretare i dati, bisogna possedere specifiche metodologie di analisi, di elaborazione e di presentazione dei risultati. La seconda skill deriva dalla prima, ovvero l’importanza del team-work: lavorare insieme, mettere al servizio del cliente le proprie e diverse competenze e specializzazioni per analizzare i dati e proporre soluzioni. La terza è la comunicazione, ovvero come comunicare ai clienti le informazioni e i pareri. Siamo nell’era di Twitter: quindi, occorre essere sintetici, efficaci, diretti, immediati.

Infine, sfruttare la tecnologia. Essere in grado di usare i nuovi strumenti che la tecnologia ci metterà a disposizione. Le macchine, l’intelligenza artificiale non risolveranno mai i problemi: la presenza del professionista sarà sempre necessaria, ma la tecnologia può aiutarci a fare meglio e in minore tempo, il nostro lavoro.

Cosa pensano i giovani di questa professione e che forma mentis dovrebbe avere un neolaureato interessato al mestiere?

Non ho dati aggiornati su cui basare un parere, ma temo che oggi la professione di commercialista non abbia più quell’appeal che aveva in passato e cioè che, in prospettiva futura, non sia in grado di ripagare gli sforzi e i sacrifici che questa impone. Adesso inoltre è veramente difficile iniziare la professione da soli. Il Dottore Commercialista “generalista”, possibile quando ho iniziato io, non appare più una strada percorribile. Occorre specializzarsi, ma dopo questo traguardo appare difficile immaginare di continuare la professione solo con la propria specializzazione: occorre unirsi ad altri per condividere conoscenze ed esperienze. Un neolaureato interessato a questa professione, deve tenerne conto.

Quanto alla forma mentis, un giovane che approccia a questa professione deve tendere ad essere autonomo, ovvero non deve sempre cercare l’aiuto del tutor-professionista, ma sforzarsi di risolvere i problemi da solo, attraverso lo studio e i necessari approfondimenti: il rapporto con il tutor-professionista va basato sul confronto. Deve essere aperto a un constante apprendimento e applicazione: l’esperienza nella nostra attività è importante, ma il sapere è fondamentale perché se non sai sei fuori dal mercato. Infine è essenziale conoscere molto bene una lingua straniera, non solo per l’opportunità di intrattenere i rapporti di lavoro con la clientela estera, ma anche per avere accesso a conoscenze sempre maggiori consultando testi tecnici di approfondimento redatti in un altre lingue.

Luca Brambilla

Clicca qui per vedere il video dell’intervista ad Alessandro Savorana