Fu turismo – L’ospitalità perduta

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Scrivere di futurismo oggi è necessario, anzi del fu-turismo. Ero un convinto attore nel mondo del turismo e dell’ospitalità –sua ancella preziosa– ma qualcosa si è spezzato. Il ciclone pandemico ha rotto la linea del tempo, più di una crisi petrolifera, più dei crack finanziari, quasi come una guerra. Ci ha portati tutti in un giudizio universale, a interrogarci sui fondamenti della nostra economia capitalistica, consumistica e globalizzata. Scriverò di Ospitalità, con la speranza che essa possa ritrovare, con l’aiuto di tutti, un suo significato perduto e così spingerci a volgere il nostro sguardo verso un nuovo inizio e non una banale ripartenza.

Per addentrarmi nella ricerca di quanto s’è perso, scriverò dell’ospitalità perduta, perché si è dimenticato che essere ospiti non è solo cosa umana, non è prerogativa esclusiva del genere umano. Scriverò poi della privacy, che non sa come creare distanza da condividere e vicinanza da allontanare. In ultimo scriverò del progresso sociale ed economico che pensiamo essere il centro di una prosperità persino benedetta da madre natura. Possono sembrarti temi fra loro scollegati, ma non è così. Li abbiamo posti al centro del mondo e li abbiamo privati del loro contenuto di dignità.

L’ospitalità non è più in grado di farci sentire comodi e tanto meno di far crescere la consapevolezza del mondo nel quale viviamo. Ospitalità non significa più accoglienza, comfort, cura, gesto disinteressato e genuinità. L’ospitalità è divenuta una articolazione dell’industria, un frammento di PIL, un’etichetta abusata dal marketing. Come è potuto accadere che ospitare sia divenuto un fatto prevalentemente economico? Come è stata possibile la trasformazione di senso così profonda da gesto del cuore a tornaconto economico imbellettato di cordialità artificiale? Tre sono i catalizzatori del cambiamento e hanno tutti origine dalla sovrapproduzione, dalla produzione vista come solo e unico generatore di ricchezza e progresso. In altri termini più si produce più si deve vendere, più si vende più si diventa ricchi.

Il primo catalizzatore del cambiamento si identifica nell’aviazione, i voli transoceanici e il fiorire di rotte ed aeroporti, il traffico aereo. Il sogno umano del volo è divenuto un’industria assetata di carburante. L’estrazione di petrolio ha avuto nel 20esimo secolo una crescita esponenziale. L’oro nero ha acceso i motori della produzione, sostituendo il carbone. Un ottimo modo per consumare carburante è stato sicuramente quello di far volare gli aerei il più possibile e non per scopi bellici. Il volo aereo ha progressivamente smesso di essere un servizio elitario per divenire un prodotto per una platea sempre più vasta. Certo anche l’industria dell’automobile è diventata molto amica del turismo e ha contribuito ad aumentare la frequenza dei viaggi. Banalmente, forse troppo banalmente, quando possiamo accogliere un ospite ogni tanto, siamo in grado di dimostrarci generosi e amichevoli, ma quando gli “ospiti” diventano un numero cento volte superiore e senza requie, possiamo sorridere solo dietro adeguato compenso.

L’ospitalità non è più in grado di farci sentire comodi e tanto meno di far crescere la consapevolezza del mondo nel quale viviamo.

Il secondo catalizzatore del cambiamento o forse del ribaltamento di ogni significato dell’esperienza più genuina dell’ospitalità, è stata la produzione di massa e la mercificazione. Lo spostamento di persone, in gran numero, ha portato alla crescita dei consumi anche in zone dove la popolazione aveva livelli di consumo relativamente bassi. Mi riferisco a consumi di cibo, prodotti finiti d’ogni genere, di territorio, di servizi e intrattenimenti, di serenità e pacifica convivenza. La frequenza dei contatti con forestieri, l’impossibilità di approfondire i dialoghi con essi, si sostituisce con i menu, i cartelli dei prezzi, le insegne e i sorrisi stampati per offerte speciali. Meccanismi di difesa, se vogliamo, per far fronte all’alto livello di frizioni e incomprensioni dovute a contatti troppo ravvicinati e frequenti -senza aver mai modo di digerirli- con culture di ogni tipo. Si prende le distanze dall’altro, producendo senza sosta, ogni cosa e sensazione, rapidamente deperibile, su corresponsione di adeguati compensi monetari. Una sorta di prostituzione della disponibilità di sorrisi di breve durata. La produzione di beni e servizi si è sganciata dalle esigenze delle comunità stanziali. Le comunità locali hanno visto modificare il loro contesto sociale finendo per diventare ancillari rispetto alla presenza di distratti flussi di visitatori. I turisti, mossi dalle più diverse ragioni di viaggio, spesso acquirenti di esperienze, non entrano più in contatto diretto con luoghi e genti, non c’è il tempo necessario per vivere l’ospitalità. Vanno a colpo sicuro, acquistando giri da parco divertimenti e a loro volta i parchi di divertimenti sanno perfettamente chi aspettarsi di incontrare. Si produce ciò che la gente consumerà e si produce anche l’ospite tipo per l’ottimizzazione dell’economia del consumo.

Terzo catalizzatore è la destagionalizzazione. Non solo non esistono più le mezze stagioni, frasetta d’intermezzo per conversazioni che languono, ma possiamo avere le fragole a novembre inoltrato, con lo champagne dell’ospitalità. Le carovane aeree in volo, abili nel dislocare ad ogni ora truppe infinite di turisti, frequent flyers, prigionieri di programmi fedeltà, ha generato un sistema di consumo complicato. L’articolazione dei servizi e dei prodotti, una volta messa in moto, non si può più fermare. Si inventa l’alta stagione continua. Nascono fiere in ogni dove, festival ovunque, neve in agosto, mari d’inverno. Quando non è per svago o piacere, si viaggia per incontrare e stringere mani, per raccogliere applausi, finendo quasi sempre accalcati, in code pazzesche, alla spasmodica ricerca dell’ultimo posto disponibile. Ogni insegna d’ospitalità incamera turisti, come otri che ingoiano liquidi fino all’orlo ed oltre, se possibile. Per stare nella metafora, la frutta e la verdura di stagione non interessano più a nessuno, sono cose da nonni che curano gli orti, vegani e persone naif che forse divinizzano Greta Thumberg, la decrescita felice (di S. Latouche) o la Blue Economy (di G. Pauli).

Nell’ospitalità che il turismo ha trasformato in industria, sparisce la dignità di chi accoglie e di chi è accolto. Sparisce anche la dignità dei luoghi. Si invadono i reciproci spazi, si sottraggono da essi le loro risorse più intime. Siamo merci che si scambiano sorrisi per moneta e si scippano proprietà a vicenda. Si producono viaggi in quantità superiore a ogni necessità; lo chiamano over-tourism. La macchina dell’ospitalità esige la folla, l’assalto ad ogni sito. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Matteo Filippo Ponti