Ci sono ancora gli status symbol?

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Status symbol: due parole che hanno sempre significato un nome o un prodotto capaci di suggerire grande seduzione. Prestigio che non veniva messo in discussione, riconosciuto anche inconsapevolmente da chi quel nome lo aveva incontrato senza sapere come o da chi e si fermava attratto da quell’oggetto per la notorietà di cui era portatore. 

Ma se è facile arrivare a una definizione di status symbol è poi difficilissimo circoscrivere il loro tempo.  Come la moda, come il concetto di stile, l’effetto di quelle due parole è in balia degli eventi, della dinamica della società. Si evolve, non può essere fermato. Passa e nessuno sa dire perché. È messo da parte, cancellato o meglio dimenticato da qualcosa di simile che gli ha tolto quanto lo aveva reso unico. 

Basta dare uno sguardo alla storia e a quell’epoca in cui l’apparire, il mostrarsi era l’affermazione del proprio essere al mondo. Il vestito e quello che di prezioso era sottinteso dicevano personalità, ricchezza, posizione sociale. Elementi troppo in evidenza che obbligavano al richiamo di regole. Nella Firenze del Quattrocento, per esempio, Cosimo de’ Medici legifera contro gli eccessi del lusso e decide chi può indossare guarnizioni in pelliccia e chi no, a chi spetta vestire di tela e chi di broccato, quanto grandi possano essere i ricami sul tessuto. Altri tempi, d’accordo, ma utili a ricordarci che siamo stati preceduti da criteri di valutazione che hanno inciso sul modo di guardare agli altri magari anche con invidia, belli perché ben vestiti, fortunati perché possessori di cose preziose. 

Status symbol: due parole che hanno sempre significato un nome o un prodotto capaci di suggerire grande seduzione.

Nel mondo contemporaneo lo status symbol ha testimoni spesso con nome e cognome, sempre personaggi di successo, a cui si attribuiscono scelte destinate a non passare inosservate: l’orologio, la borsa, le scarpe. O un capo di abbigliamento firmato da un sarto che da quel giorno diventa famoso. Ed è così che tanto più si è popolari tanto più l’immagine che si sceglie veicola un surplus di notorietà che porterà a quel gradino che autorizza a sentirsi modello, esempio da imitare. Ai personaggi da prima pagina dei settimanali, dive del cinema, principesse o comunque nomi del jet set, seguono cantanti e band. È il tempo del taglio dei capelli o meglio del non taglio. Si chiamano capelloni e sono ormai inconfondibili. I parrucchieri vi si adeguano sollecitati dai più giovani che si ritrovano con una zazzera che arriva agli occhi e sfiora le orecchie. Prepotenti e immancabili gli occhiali, dove le lenti sono un fatto secondario, quasi un dettaglio trascurabile. Importante la montatura che ridisegna la forma del viso e la stravolge. 

L’idea di affidare ad un oggetto esterno o a un capo griffato da portare con la certezza di aver raggiunto un motivo di affermazione è destinato però a esaurirsi. La moda motore principale di ogni novità diventa fenomeno di massa.  Le imitazioni si sovrappongono agli originali, le copie delle copie sono a portata di tutti. Basta, è il caso di cambiare pagina. 

E diventa status symbol non più una cosa, ma un atteggiamento. Come se l’eccessiva abbondanza di simboli avesse finito con il banalizzarli, con il togliere loro potere e fosse necessario mettere in scena l’imprevedibile, ma dotato di quell’appeal senza prezzo, ma ambitissimo. 

Che cosa c’è di più prezioso del tempo? Dunque, il tempo non può essere vuoto, inutile, ozioso. Va riempito e qui entrano in gioco gli interessi, le attività di cui essere fieri, da ostentare o magari da esibire. Tempo naturalmente per lavorare, perché diventi non solo fonte di reddito, ma oggetto di invidia, non dato a tutti, non portato avanti con il normale passare delle ore. Scrive Silvia Bellezza, docente di psicologia del marketing alla Columbia Business School, in uno studio pubblicato qualche mese fa sul Journal of Consumer Research: “L’assenza di tempo libero è il nuovo status symbol”. In altre parole, lavorare tanto, lavorare sempre fino a dimenticare il tempo da trascorrere in famiglia, o da riservare allo svago in cambio di sentirsi parte di una condizione sociale a cui non tutti possono avere accesso. 

Luisa Maria Alberini