Come nasce la necessità di raccontarsi: dall’Homo Fictus allo storytelling museale – Seconda parte

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L’immaginazione che usiamo per costruire le nostre storie, considerata come facoltà, permette un processo di produzione di senso che è lo stesso riflettersi dell’uomo sull’immagine di sé e sull’arte. Quello che emerge senza dubbio, è che una narrazione efficace si poggia sempre sulle emozioni. Ed è qui che subentra lo storytelling[1], una tecnica che consiste nel raccontare storie capaci di suscitare emozioni. Per i musei fare storytelling significa avvicinare le persone a una dimensione che non appartiene loro; creare un racconto inclusivo da cui ognuno possa trarre un’interpretazione. Le storie possono essere raccontate con comunicazioni scritte, animazioni teatrali, ambientazioni, o sempre di più attraverso il digital storytelling.

L’unione dello storytelling con il museo nasce dalle narrative museali, dal modo di concepire il museo come un insieme di storie, piuttosto che come verità assolute. Il “narrare” di un ente culturale generalmente si basa sulle collezioni e oggetti culturali presenti, ma i contenuti che un museo offre sono e saranno sempre influenzati dalle idee degli artisti, dei collezionisti, dei critici, degli espositori e dei fruitori.

Sulla base di questo è più che lecito percepire l’offerta museale come un insieme delle narrative da “leggere”.

Fare storytelling significa avvicinare le persone a una dimensione che non gli appartiene, creare un racconto da cui trarre un’interpretazione

Lo storytelling museale può essere inteso come una metodologia laboratoriale, che creando un intreccio innovativo tra le pratiche sperimentali e le prassi narrative, stimola il pubblico a dare origine a una cultura attiva. Così le storie personali e collettive, si fondono in una danza ricorsiva tra l’individuo e il museo per creare un corpo unico. Ma non è un processo che nasce senza un’organizzazione, così come avviene in un racconto, anche nel museo bisogna sviluppare i passaggi da una stanza all’altra, da un’opera all’altra, da un concetto all’altro. Chi si occupa di raccontare la collezione è chiamato a occuparsi di un autentico “montaggio” delle parti e quindi di stabilire ciò che è essenziale e cosa non lo è. Per questo motivo, il percorso narrativo, che converge in quello didattico, deve avere una struttura di base, proprio come un racconto con una trama, una sequenza e un intreccio.

Si dice che lo storytelling è spesso uno strumento necessario per “animare” i musei “silenziosi” come quelli tecnici o archeologici, ma una domanda sorge spontanea: può il museo contemporaneo di qualsiasi natura prescindere dall’abilità di raccontarsi, così come dalla tecnologia che può aiutarlo in questo?

L’uso della narrazione risale alla comparsa dell’uomo sulla Terra e nasce dal bisogno di comunicare, ricordare e creare l’immaginario attraverso le storie. L’era del digitale cambia la fruizione del patrimonio artistico e la proietta in altre modalità: fare un uso maturo delle nuove tecnologie significa saper fondere la narrazione e la conoscenza in una forma capace di comunicare e coinvolgere coloro che la fruiscono, facilitando la comprensione dell’opera d’arte, senza scardinarne il valore. Quale luogo migliore del museo può dare questa possibilità? Possibilità di vivere le storie, di creare i legami tra l’ordinario e lo straordinario.

Jekaterina Kanevskaja


[1] Il termine storytelling, letteralmente è l’arte del “raccontare storie”, è una metodologia che usa la narrazione come mezzo creato dalla mente per inquadrare gli eventi della realtà e spiegarli secondo una logica di senso. L’atto del narrare, nello storytelling, si ritrova nell’esperienza umana e si può rappresentare in varie forme che connettono pensiero e cultura.