Essere manager – Intervista a Paolo Porcelli

Tempo di lettura: 7 minuti

Oggi incontriamo il dottor Paolo Porcelli che nella sua lunga carriera di manager in numerose aziende rinomate, tra cui Heineken, Gruppo Nestlé e Unilever-Bestfoods, ha accumulato l’esperienza necessaria per darci utili suggerimenti che trasferiamo qui con precisione per i nostri lettori. 

Dott. Porcelli, che cosa ha imparato nella sua carriera da manager? 

Dipende molto dalle fasi della carriera stessa, a mio avviso. 

All’inizio di un percorso professionale è importante concentrarsi sull’apprendimento e lo sviluppo degli elementi hardware della managerialità come le competenze e gli strumenti: per guidare un business o un’azienda bisogna sapere come esercitare la guida e, spesso, il controllo. Le tecniche e il metodo restano validi sia nel presente, nel caso in cui ci si renda conto che non è il business il settore in cui si vuole lavorare, sia nel futuro, perché costituiscono i vantaggi competitivi che permettono il passaggio a vari ruoli e a business differenti.  

Via via con la crescita professionale diventa sempre più importante per la carriera lavorare sugli elementi software, quali la gestione delle risorse, le capacità relazionali, la diplomazia organizzativa, l’abilità espositiva e lo sviluppo del networking sia interno sia esterno all’azienda, che permettono di costruirsi la propria personal equity valorizzando la propria esperienza manageriale in utilità per sé stessi e per gli altri. 

Ci sono altri due fattori spesso trascurati, ma che, soprattutto nel salto di carriera manageriale, vanno tenuti in considerazione, perché difficili da controllare o pianificare: i famosissimi fattore C e il suo opposto fattore S

Ci spieghi meglio… 

Non vorrei essere volgare, ma si tratta dell’immensa e inattesa fortuna del posto di lavoro della propria vita e l’opposto baratro di sfortuna ingestibile. Queste due imponderabili armi cosmiche spesso si concretizzano nel cosiddetto ‘timing di carriera’, cioè nell’essere il manager giusto per il ruolo giusto nel momento giusto. In questo caso, è la vittoria completa! Viceversa, è terribilmente negativo essere il manager sbagliato per il ruolo sbagliato nel momento sbagliato o anche essere il manager giusto per il ruolo sbagliato nel momento sbagliato. 

Che differenza c’è tra essere manager di una multinazionale e di un’azienda familiare? 

Ho avuto l’opportunità di lavorare in entrambi i contesti che sono due realtà di business differenti con logiche di gestione diverse, indipendentemente dal livello di competenza e d’esperienza del manager.  

Nelle multinazionali la gestione del business prevede organizzazioni strutturate e verticali, governate attraverso la delega con controllo, con ruoli e processi definiti e condivisi. In questo contesto, i manager fanno scelte fact-based e sono misurati sui risultati che portano in relazione agli obiettivi. La velocità d’esecuzione è fondamentale, ma spesso il manager deve gestire anche la presenza di stakeholder Corporate nei vari processi, la cui presenza tende a dilatare la tempistica delle decisioni. 

Nelle aziende familiari – a esclusione di alcuni proprietari “illuminati” che si sono ritirati nei CDA con ruoli istituzionali, lasciando realmente la conduzione del business a manager professionisti – l’imprenditore, soprattutto se “storico”, difficilmente riesce a staccarsi dai ruoli operativi, concentrando nelle sue mani tutte le decisioni. Il ruolo centrale della proprietà nel governo dell’azienda influenza sia l’autonomia decisionale sia lo spazio d’azione dei manager. Il rischio è di entrare in conflitto nel caso di posizioni divergenti sul business e, ancor peggio, di essere spesso valutato sul come si propongono le cose più che sul che cosa si propone.   

Intervista a Paolo Porcelli, un interessante dialogo  sul significato dell'essere manager e sull'importanza di costruire un personal brand.

Quali sono i punti di forza e di debolezza delle aziende familiari? 

Spiccano la grandissima passione per il prodotto e l’attenzione alla sua qualità, il rispetto della tradizione e dei valori ereditati che rappresentano un’ossatura importante delle organizzazioni; “l’italianità”, importante elemento e vantaggio competitivo soprattutto per lo sviluppo internazionale del business e in generale la solidità finanziaria e patrimoniale costruita negli anni che ne garantisce la forza e la possibilità di assorbire i colpi determinati dalle turbolenze dei mercati. 

I punti di debolezza sono talvolta la limitata managerialità nella gestione, l’attaccamento alla storicità si può tradurre in resistenza al cambiamento organizzativo, l’alto turn-over dei manager professionisti e la mancanza di ricambio generazionale: molto spesso gli imprenditori non hanno un ricambio generazionale che possa mantenere il passo. Nelle aziende di alcuni proprietari “illuminati” vige invece l’obbligo che i primi lavori dei figli vengano svolti al di fuori dell’azienda familiare, per evitare l’influenza sia top-down sia bottom-up

Quanto è importante per un manager costruirsi un proprio personal brand? 

Direi che è fondamentale, soprattutto oggi. 

Un tempo a un manager bastava inviare il suo curriculum vitae per presentarsi grazie alla credibilità derivante dalla sua seniority, dai ruoli ricoperti e dal prestigio delle aziende in cui lavorava. Nel contesto attuale, l’utilizzo delle social platform rende pubbliche molte più informazioni su cui essere valutato che permettono di dare un quadro più ampio del profilo di una persona come persona e come manager. Così come per i prodotti, anche per i manager la gestione della loro impronta digitale per migliorare la propria immagine percepita equivale a costruire il proprio personal branding, consolidando il proprio profilo professionale. Un conto è ciò che sanno fare, un conto è ciò che gli altri percepiscono e capiscono. 

Una volta si parlava di credibilità, adesso si parla di reputation: non basta più la credibilità che il manager afferma di avere, ma diventa fondamentale la reputazione che la sua community gli attribuisce. Il personal branding dipende anche dal proprio network: l’opportunità e la capacità di allargare e di attivare i propri contatti via web facilita e potenzia la capacità di fare un networking attivo. Tutto si catalizza in base alla reputazione della comunità in cui si lavora. 

Quali sono i suggerimenti che darebbe a un giovane che vuole intraprendere questo percorso? 

È fondamentale impostare da subito una strategia di crescita a medio e lungo termine avendo ben chiari i passaggi fondamentali del proprio obiettivo di carriera, dove si vuole lavorare e dove si vuole arrivare. Senza un piano, non si arriva da nessuna parte, il percorso può essere diverso, ma in partenza bisogna avere una direzione. 

Occorre precisare che i percorsi di crescita non sono mai lineari come li si pianifica e i cambi e le discontinuità, sia in positivo sia in negativo, possono arrivare improvvisi e cambiare i programmi o anche modificare le scelte iniziali. Per questo, soprattutto nelle prime fasi della propria carriera, i giovani dovrebbero “tenersi nel corridoio e non chiudersi nella stanza”, intendendo con questa immagine l’opportunità di lavorare in ruoli che possono essere sempre appetibili in tutte le aziende per promozioni o per passaggi al di là della tipologia di business gestito. Questo perché hanno costruito una serie di competenze che sono in un primo momento largamente rivendibili, poi più si va avanti più vige la specializzazione. 

Un ruolo spesso poco considerato, ma fondamentale nello sviluppo di una carriera è lavorare nel Trade Marketing che permette un passaggio nelle Vendite o nel Marketing, nel Digital Management o nel Revenue Growth Management per un passaggio o nelle Vendite o nel Finanziario. 

Luca Brambilla