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Lei ha avuto una grande carriera nel mondo forense, come è evoluta secondo lei l’impostazione degli studi legali per quanto riguarda il management?
Negli anni ’70-‘80 pochi studi legali erano gestiti da un vero e proprio office manager. Gli altri studi si avvalevano un’assistente o di una impiegata addetta a mansioni amministrative o del classico ragioniere-contabile. Progressivamente è cresciuto il livello professionale dell’office manager.
Si è iniziato a sceglierli tra dirigenti di imprese nell’ambito amministrazione e finanza a causa della mancanza di figure con una esperienza specifica in studi professionali. Più sporadicamente sono stati ingaggiati CEO e COO di imprese di servizi o di altra tipologia.
Oggi vi sono anche manager con esperienza specialistica nella direzione generale di grandi studi professionali. Inoltre si è formata una platea piuttosto ampia di manager di secondo livello.
Accanto alle funzioni di amministrazione, finanza e controllo, negli studi maggiori addirittura separate tra loro, sono cresciute d’importanza le funzioni IT, marketing, comunicazione e personale, affidate a figure manageriali. Le decisioni strategiche e le scelte d’indirizzo, invece, rimangono affidate al consiglio di amministrazione e/o all’assemblea, costituiti da avvocati-soci, i quali frequentemente hanno anche ruoli manageriali esecutivi. Ritengo che in tali organismi entreranno a breve anche non avvocati e soci di capitale, e che questo avvicinerà sempre più gli studi legali a vere e proprie imprese. In alcuni Paesi vi sono già studi legali quotati in Borsa, e anche in Italia si è iniziato a parlarne.
Quanto sono importanti le soft skill per chi fa il mestiere dell’avvocato?
Oggi senza la capacità di lavorare in team e di interagire proficuamente con chi ne fa parte non si va lontano. Certamente non basta essere dotati di buone competenze tecniche se non si sa lavorare in team e per il team. Ciò vale per chi lo dirige come per quelli che partecipano. Occorre metodo, disciplina e interazione coordinata. E’ determinante non solo per offrire al cliente servizi professionali di qualità, ma anche per essere economicamente efficienti e competitivi. Le operazioni e le attività più complesse richiedono anche una squadra coesa e fortemente motivata, i cui componenti sappiano sacrificarsi e offrire dedizione totale quando è necessario in funzione della mole di lavoro e della tempistica assegnata. E’ bene dunque che la valorizzazione di ogni componente del team venga riconosciuta all’interno dello studio ed esteriorizzata nei confronti dei clienti e degli altri interlocutori professionali. Questi ultimi solitamente l’apprezzano e la considerano un fattore che concorre a determinare la scelta di affidamento dell’incarico. La consapevolezza di ciò mi pare aumentata, tant’è che vedo sempre più spesso comunicazioni a mezzo posta elettronica firmate dal team anziché dal singolo partecipante. Il successo deve essere condiviso anche per l’importante valenza motivazionale che ha tale condivisione. E certamente migliora le relazioni interpersonali e il clima dell’ambiente professionale festeggiare tutti assieme il termine di un’operazione o di una attività che ha avuto un buon esito.
Quali sono i criteri per riconoscere un maestro sul lavoro?
Ogni maestro ha il suo stile, ma v’è un criterio univoco per riconoscerne uno: gli allievi del maestro apprendono e maturano molto più velocemente degli altri. Nei casi più virtuosi perché il maestro sa e vuole trasmettere conoscenza agli allievi, motivarli e responsabilizzarli. Talvolta perché il maestro ha capacità professionali talmente eccellenti che la crescita dell’allievo avviene nonostante il maestro non faccia granché per curarla.
Com’è cambiata nel corso degli anni la sua relazione con i giovani avvocati?
Col tempo ho capito che la severità non solo è inutile, ma addirittura controproducente. Si ottiene di più stimolando l’autocritica e la reazione d’orgoglio dell’allievo con osservazioni misurate, accompagnate dalla dimostrazione di aver compreso le difficoltà e valutato anche gli elementi positivi della performance. Il giovane avvocato nella maggior parte dei casi sbaglia per mancanza di metodo o per inesperienza. Se v’è la preparazione di base, quella sì insostituibile, bisogna incoraggiarlo a migliorarsi fornendogli le indicazioni necessarie per colmare le proprie lacune e superare i propri limiti, tecnici e caratteriali. Bisogna inoltre essere molto attenti e precisi nell’affidare gli incarichi ai giovani colleghi, dedicando a tale attività il tempo necessario e assicurandosi che abbiano ben compreso cosa devono fare e per quali finalità, senza pretendere ciò che essi non possono dare, in base al loro livello di esperienza o in assoluto. Anche la frettolosità e l’imprecisione nell’affidamento dell’incarico costituiscono spesso la causa o la concausa di performance negative.
Che consiglio darebbe a un giovane avvocato che sta per entrare nel mondo del lavoro?
Di guardarsi dentro con consapevolezza. Di cercare di capire se le sue caratteristiche personali devono farlo puntare a raggiungere obiettivi molto ambiziosi, con il conseguente impegno e sacrificio, o se è meglio che dia precedenza alla qualità della vita e alla sostenibilità dell’impegno. Il lavoro va cercato dopo aver compiuto una lucida auto-valutazione. I giovani avvocati hanno la possibilità di scegliere tra molte specializzazioni o una practice più generalista, e tra i vari ambienti nei quali svolgere la professione, molto differenti tra loro. In particolare, per prospettive economiche e rapporto tra soddisfazioni e qualità della vita. E’ una scelta che il più delle volte deve essere compiuta quando non si hanno ancora le idee chiare sui vari e diversi contesti professionali. Ritengo utile orientare le scelte fondamentali dopo essersi fatti raccontare da più avvocati, di diverse età e che operano in differenti contesti, le loro rispettive esperienze.
Luca Brambilla