L’impegno umanitario di Medici Senza Frontiere- Intervista a Stefano Di Carlo

Tempo di lettura: 7 minuti

Oggi diamo la parola a Stefano Di Carlo che ha assunto nel 2021 la carica di Direttore generale di Medici Senza Frontiere, dopo un lungo periodo di lavoro per la stessa organizzazione in Giappone. È l’occasione per dialogare di temi importanti, nel più puro spirito di servizio di cui il Magazine di Comunicazione Strategica si fa volentieri portavoce. 

Stefano, inizierei questo dialogo tra noi chiedendoti di presentarti brevemente. 

Sono un biologo, ma all’interno dell’organizzazione ho lavorato quasi sempre in posizione di gestione, cominciando nel 2008 ad Haiti, come operatore umanitario; sono stato coordinatore di progetto, poi capo missione fino al 2016. Ho assunto la guida dell’unità innovazione umanitaria nell’ufficio di Medici Senza Frontiere in Giappone per quattro anni; nel 2021 sono rientrato in Italia e ho iniziato questa nuova avventura come Direttore Generale. 

Puoi dirci qualcosa sulla situazione che hai ereditato dai tuoi predecessori? 

Medici Senza Frontiere è cresciuta progressivamente a livello internazionale, il che ci ha permesso di svolgere numerosi progetti, ma in seguito a questa crescita importante ci siamo trovati anche a far fronte ad un aumento di complessità gestionale all’interno dell’organizzazione stessa. Abbiamo dovuto affrontare inoltre i cambiamenti di contesto e le difficoltà che tutta Italia ha incontrato negli ultimi due anni. Quando ho preso in mano l’organizzazione come Direttore, ho trovato la complessità: ci viene richiesto oggi di essere molto più rapidi ed essere disposti anche a cambiare le modalità lavorative per essere sempre efficaci sul campo. 

Per darci qualche numero, quanti medici e collaboratori siete? 

Siamo circa 4.000 operatori umanitari expat e poi c’è da calcolare un tasso da 1 a 10 rispetto agli operatori locali. La maggior parte del nostro team è composto da operatori locali, ma spesso quelli che erano operatori locali diventano espatriati. Molte posizioni sul terreno vengono ricoperte da expat per motivi di sicurezza, perché in alcune posizioni si deve negoziare con molte parti in causa: se si è locali, si rischia di essere minacciati, di avere pressioni ingestibili. 

Come si avvicinano a voi i medici che collaborano con Medici Senza Frontiere? 

È difficile dire chi sono e in quanti restano. Abbiamo sempre posizioni aperte alla ricerca di nuovi profili. Un certo numero di medici iniziano e si fermano poco, dopo una o due missioni vanno via, c’è anche un nucleo di persone che rimane nel lungo periodo. La complessità è avere un’imponente crescita come organizzazione, ma non avere abbastanza personale; la sfida sta nel creare internamente i leader che poi rimangono per portare avanti l’organizzazione. Nonostante la difficoltà di reperire medici, siamo sempre riusciti ad avere tanti professionisti che hanno una forte motivazione per partire con noi. 

Intervista a Stefano Di Carlo che, nel 2021, ha assunto la carica di Direttore Generale di Medici Senza Frontiere.

Quali sono le modalità che Medici Senza Frontiere predilige per comunicare le proprie attività? 

La testimonianza è il cuore delle nostre attività, vale a dire cercare di portare il più possibile la nostra esperienza al pubblico. Fin da quando è stata fondata, i due cardini dell’organizzazione sono azione medico umanitaria e testimonianza. La nostra comunicazione fa leva, quindi, sulle testimonianze degli operatori che hanno vissuto le crisi umanitarie, per poi riportarle laddove provengono gli operatori. Questo viene fatto in modi diversi, sia in forma privata da parte degli operatori stessi, sia in modo strategico. Per comunicazione strategica intendiamo una comunicazione orientata a fini molto precisi, o a determinati stakeholder, per esempio istituzioni o gruppi, o ancora la comunicazione in contesti di guerra con le parti in gioco di un conflitto, che di fatto serve a garantire il nostro accesso alle zone dove si trovano i nostri pazienti. 

Data la tua esperienza, risentite del divario comunicativo con le parti in cui vi trovate a operare in termini relazionali, ma anche linguistici e culturali?  

È molto complesso avere punti di riferimento in contesti che sono antropologicamente o sociologicamente a noi estranei, ci sono regole comunicative che non sono visibili subito. Facciamo attenzione a comunicare chi e quello che siamo. Ci aiuta molto avere mediatori locali che fanno da ponte e ci aiutano a capire meglio il contesto. In alcuni casi utilizziamo studi veri e propri, cercando di capire come il paziente percepisce l’offerta, adeguando poi l’offerta al contesto. Noi offriamo la medicina occidentale, un tipo di approccio evidence-based che sembra naturale da comprendere, ma per una società di tipo diverso può apparire estraneo. Occorre creare comunicazioni che favoriscano la promozione della salute e l’accesso alle nostre strutture. 

Rispetto a questo tema di accesso alle cure, esiste un divario basato sul genere piuttosto che sulla posizione sociale, dove c’è qualcuno che fa fatica ad accedere alle cure di base? 

Sì, ci sono contesti diversi che hanno difficoltà diverse, quindi fasce della popolazione che hanno più o meno accesso alle cure proprio per chi sono. Questo aspetto richiede strategie diverse, quindi in ogni Paese il tipo di limitazione, che si può stratificare socialmente, deve essere studiato per poter essere superato almeno da noi.  Le diseguaglianze si trovano in tutti i Paesi e uno dei nostri obiettivi è quello di riuscire ad accedere anche al livello più escluso. 

Immagino che, a differenza di altre organizzazioni e di altri tipi di contesti medici, offriate servizi differenti da un contesto all’altro. Puoi farci una panoramica dei vostri servizi? 

Negli anni il ventaglio dei servizi che offriamo si è espanso in maniera incredibile. Nasciamo come organizzazione che offriva medicina d’urgenza, oggi siamo un’organizzazione che interviene nelle epidemie, nelle catastrofi naturali, nei conflitti, ma anche su tantissimi aspetti della salute come la salute infantile, la prevenzione attraverso le vaccinazioni, le cure oncologiche, la nutrizione, la cura della tubercolosi, dell’HIV e dell’epatite C. Abbiamo un panorama molto diversificato di progetti, che ci pongono sempre più sfide. 

Spesso c’è una sovra informazione rispetto alla pandemia e in questo periodo, in cui la priorità è stata un’altra, sembrava che tutto il resto non esistesse più. Ne avete risentito? 

Il problema della visibilità delle crisi umanitarie è un problema serio sul quale ci confrontiamo sempre, aldilà del Covid-19. Le crisi umanitarie che sono state veramente presenti nella comunicazione pubblica italiana sono molto poche. Spesso alcune emergenze hanno picchi di visibilità, per esempio il terremoto di Haiti o l’epidemia di Ebola, per poi affievolirsi. Esistono tantissime altre crisi di cui non si sente mai parlare, come l’attuale situazione dello Yemen o della repubblica Democratica del Congo. Questa tendenza ricorre sempre, noi cerchiamo con la nostra campagna di comunicazione di far risaltare determinate crisi, ma abbiamo importanti difficoltà.  

Dato che inizia un nuovo anno con rinnovati impegni, ti lascio lo spazio per dire qualcosa sulle vostre priorità con un appello diretto ai lettori. 

Per quanto sia grande la nostra organizzazione, siamo consapevoli che non riusciremo mai a coprire tutti i bisogni umanitari presenti, però la nostra azione può fare veramente la differenza per le persone che riusciamo a raggiungere. Noi non possiamo attuare un grande cambiamento; chi può cambiare le cose è la politica internazionale ed è una responsabilità che le persone possono prendere su di sé. L’appello che io vorrei fare è questo: sosteneteci, ma soprattutto agite per far sì che i valori umanitari diventino valori sociali. 

Cecilia M. Voi