Il potere del silenzio: noi e gli altri

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Esiste un momento in cui le parole si consumano

e il silenzio inizia a raccontare.

Khalil Gibran

Le parole sono i colori che usiamo per dipingere il nostro mondo, i nostri pensieri, le nostre emozioni. Quanti più colori usiamo per dipingere il mondo, tanto più sarà colorato, variegato e pieno di significati. Come sosteneva il filosofo austro-inglese Ludwig Wittgenstein «I limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo».

Quanto sia importante la comunicazione per il genere umano non serve sottolinearlo e nemmeno quante siano le forme di comunicazione verbale e para-verbale che l’uomo nel corso della sua evoluzione ha saputo sviluppare. Si comunica per soddisfare i nostri bisogni primari, non solo con le parole, anche con i gesti, con i pianti, pensiamo ai bambini che ancora non hanno sviluppato l’uso del linguaggio. Si comunica per sopravvivere, ma anche per socializzare, lavorare, far divertire, far piangere, far riflettere, trasferire conoscenza, esternare le proprie emozioni…

Viviamo in una società, quella occidentale, dove siamo iper-sollecitati da tutta una serie di stimoli. Da quelli visuali, a quelli sonori, a quelli verbali. La società di oggi è una società non solo “liquida” nella sfuggevolezza e frugalità dei comportamenti e delle emozioni, ma anche estremamente votata a riempire con qualunque sorta di cosa spazi e momenti del proprio vivere e del proprio sentire.

Nella nostra attualità, tuttavia, sembra non ci sia spazio per il silenzio. È come se il silenzio in qualche modo fosse un contenitore vuoto, superfluo, privo di significato, desueto. O ancora come se il silenzio fosse qualcosa di cui vergognarsi; credenze acquisite che ci impongono di avere sempre una risposta a tutto, una parola per tutto, di non poter in qualche modo sostenere il peso del silenzio. Pensiamo quando a scuola accadeva di fare “scena muta”, a chi non è accaduto? Chi non ha provato vergogna, senso di colpa o smarrimento? In quel caso il silenzio aveva un’accezione negativa e magari una causa nella nostra impreparazione; l’imprinting lasciato nella nostra memoria ci fa, oggi, rivivere in alcuni contesti quella stessa sgradevole sensazione.

Il silenzio, tuttavia, non spaventa i bambini, se ben elaborato sin dalla prima infanzia. Come spiegava Maria Montessori, la quale insegnava ai bambini il silenzio, sostenendo che ne fossero deliziati. Secondo la stessa Montessori una lezione efficace è quella che usa meno parole possibili. I bambini non hanno barriere preconcette, sono aperti all’apprendimento, affascinati dal nuovo, dal gioco che diventa lezione di vita, così facendo il gioco del silenzio insegnava loro a sperimentarlo. Non tutti però abbiamo avuto insegnanti illuminati, non tutti abbiamo vissuto in case dove il silenzio non era sinonimo di lite, o musi lunghi, ma bensì di calma, pace e interiorità. Nonostante ciò, in un mondo denso di comunicazione, si può fare spazio a un silenzio costruttivo che diventa scelta e competenza da allenare.

Se ci pensate, diventare adulti significa non solo uno scorrere lento e inesorabile del tempo biologico, ma anche una continua ricerca di significati, un costante aggiornamento di valori.  Diventare adulti significa anche comprendere che alcuni aspetti del passato recepiti come esperienze negative, oggi possono essere una chiave di svolta, un valore aggiunto.

Il silenzio è uno spazio denso, pregno di parole, di sentire, di vita. 

Le parole sono i colori che usiamo per dipingere il nostro mondo, i nostri pensieri, le nostre emozioni.

Pensate a quando dovete concentrarvi, schiarirvi le idee, trovare pace. Qualcuno di voi probabilmente ascolta musica, qualcuno esce a camminare o cerca il contatto con la natura, ma molti di voi cercano il silenzio. Questo accade principalmente, perché così facendo possiamo ascoltare la nostra voce interiore, senza distrazioni. Nel frastuono del mondo esterno, la nostra voce interiore viene sommersa, zittita da tutto ciò che ci circonda. Quando siamo in contatto con noi stessi, nel silenzio che può essere vissuto anche in una stanza di casa, non per forza su di un’isola deserta o in un monastero benedettino, noi facciamo spazio alla presenza, la nostra. La ricerca di un’interiorità non è prerogativa di teologi, mistici, yogi o eremiti, anche questi sono stereotipi legati a culture non inclusive.

Esistono invece archetipi, archetipi collettivi che risiedono nel nostro inconscio, i quali, anche senza la nostra presa di coscienza agiscono e ci spingono in situazioni particolari ad azioni precise. Si pensi all’archetipo dell’eroe presente in ognuno di noi, si pensi all’archetipo del saggio, del maestro, figure che nella loro parte attiva sentono la chiamata a una ricerca, a uno scopo superiore, talvolta sì, anche mistico, che porta a guardarsi dentro.

Quanti di noi, in momenti sfidanti per la nostra vita o la nostra carriera, hanno sentito l’esigenza di trovare uno spazio che non fosse occupato da un rumore, suono, eco di vita altrui, per riflettere e ascoltarsi? Ci sono inoltre evidenze scientifiche che hanno valutato come il silenzio sia benefico per il nostro cervello. Fare una pausa, da tutto e tutti, serve a far lavorare meglio le nostre sinapsi, schiarisce le idee, porta a consapevolezza.

Evita quel “torpore” mentale che non ci aiuta a pensare in maniera serena ed efficace. Il termine anglosassone per questo stato, reso ancora più caotico e brancolante dall’iper-connessione digitale, è foggy brain. Il cervello nebbioso, annebbiato, è un’ottima metafora che calza con il nostro attuale discorso. Nella nebbia si perdono i punti di riferimento, si va a tentoni, tutto è dissimulato, senza forma, perdiamo il controllo della nostra direzione. Come accade quando c’è troppa confusione intorno, come quando continuiamo a parlare ininterrottamente quasi senza prestare attenzione alle parole. Rimaniamo quasi senza fiato, l’interlocutore ha perso completamente il filo del nostro discorso, perché noi non abbiamo fatto sì, che le pause (silenzi), fungessero da ponti, per passare da una riva all’altra. Da un significato all’altro.

Anche chi ci ascolta ha bisogno dei nostri silenzi. Brevi, ma decisi. Danno ritmo, incalzano, fanno riflettere, permettono una riflessione che non avverrebbe se continuassimo a parlare. Togliersi inoltre dagli eccessi degli stimoli sonori e se possibile visivi, aiuta a disintossicarsi, letteralmente, da quello che è oggi un fenomeno studiato da scienziati e neuroscienziati, definito come “noise pollution”: l’esposizione eccessiva a rumori e sollecitazioni sensoriali che in dosi massicce porta con maggiore frequenza all’insorgenza di patologie correlate. Se ancora non siamo abbastanza motivati ad ascoltare e valorizzare i nostri silenzi, sappiate che ci sono ottime ragioni, per valorizzare il silenzio altrui, migliorando la comunicazione empatica.

Come gestire i silenzi dell’altro da una prospettiva ontologica.

Per quanto ascoltare noi stessi sia talvolta un compito arduo che evitiamo di portare a compimento facendo finta che vada tutto bene, accade anche che lo stesso errore lo si faccia con il nostro interlocutore. Udire è diverso da ascoltare; ascoltare è diverso da ascoltare con presenza, lasciando il nostro mondo fuori dal contesto per offrirci all’altro.

E’ un atto empatico, occorre esserne consapevoli. Viceversa, appunto, rischiamo di udire o al più ascoltare, ma senza essere presenti. Un po’ come se sentiste una televisione o una radio accesa in sottofondo, senza prestare attenzione a ciò che viene trasmesso, senza esserne coinvolti al punto da emozionarvi o ricordavi ciò che avete sentito.

Questa è la prima condizione per chi voglia sviluppare competenze che portino ad una comunicazione ontologica ed empatica. La comunicazione ontologica abbraccia la filosofia del linguaggio e la filosofia costruttivista. Un importante contributo all’ontologia del linguaggio si trova nell’opera del filosofo cileno Rafael Echeverrìa. L’ontologia, branca fondamentale della filosofia, attiene allo studio dell’essere in quanto tale e al suo logos.

Come si è visto, comunicare comprende il linguaggio verbale e non solo. Comunicare ontologicamente significa rispettare, rispecchiare e accettare l’essere umano, senza giudizio. Accettarlo nella sua totalità come creatore, attraverso il suo logos, di significati che distinguono la realtà dell’uno da quella dell’altro. In questo aspetto si ha l’apporto della filosofia costruttivista. Non esiste una realtà, bensì tante realtà quante sono le distinzioni linguistiche che riusciamo a creare.

I silenzi che abbiamo visto essere croce e delizia delle nostre conversazioni, sono portatori di significati. Se, per gestire i nostri, è necessario rimanere in ascolto di noi stessi, cercando spazi di calma e interiorità per far emergere ciò che il silenzio ha da dirci; per gestire quelli del nostro interlocutore occorre volontà di esserci con la nostra presenza non solo fisica, ma spirituale, esimersi dal giudizio, dal consigliare o dall’interrompere e soprattutto occorre svestire i propri panni (egoless attitude).

Quando riusciamo a fare questo passo e ascoltare quanto il silenzio ha da dirci, noi abbiamo superato una barriera concettuale. Barriera che impedisce di dare un significato al nulla, al vuoto, al non sonoro, al non detto. I “non detti” spesso nelle conversazioni sono tutte le cose che non abbiamo il coraggio di dire, sono le cose lasciate in sospeso, sono ciò che ci aspettiamo che l’altro capisca senza esprimere, sono ciò che genera disagio, fraintendimento. Il “non detto” può diventare così spazio generativo di altri significati. Comprendendo che esiste questo spazio, questa “terra di mezzo” comunicativa, accediamo a una comunicazione che va in profondità, creando spessore, intimità, accettazione e fiducia. Il silenzio è ben più di una semplice pausa tra le parole.

Ileana Todeschini