La trappola della coopetition nella comunicazione: il caso Burger King

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La resilienza, prima, e la coopetition poi, sono da mesi indicate come alcune delle chiavi per superare il difficile momento – economico e umano, non necessariamente in quest’ordine – che stiamo vivendo a causa del Covid-19. Una pandemia che ha modificato le nostre abitudini, propensioni di acquisto e, in generale, la percezione del futuro delineando una serie di nuovi cluster cui i brand hanno cercato di rivolgersi con messaggi diversi. Con un grado di fiducia decrescente verso il superamento della crisi e l’operato delle istituzioni, una ricerca di GroupM ha individuato nel corso del lockdown primaverile alcune tipologie di consumatori: dai Calm Keeper e Committed, proattivi che non si sono fatti travolgere dagli eventi, ai Protector, più attenti al rispetto delle norme di prevenzione sanitaria, fino agli Escapist che si sono invece rifugiati nel consumo massivo di YouTube, Netflix e Social Media pur di allontanarsi dal racconto dell’escalation del virus. Nei confronti di tutte queste personas la leva della resilienza è stata adoperata con coscienza e senza eccessiva retorica, ma la rapida evoluzione del contesto ambientale e le crescenti preoccupazioni in ambito economico stanno determinando il mutamento di alcuni paradigmi. Molti brand infatti hanno scelto di abbracciare virtualmente i propri competitor, colpiti dalla medesima crisi di settore, in una declinazione della coopetition intesa non come alleanza produttiva o commerciale, ma come sforzo congiunto dal punto di vista comunicativo.

Dal rassicurante #andràtuttobene all’altrettanto conciliante messaggio #andateancheda, la transizione non è stata tuttavia priva di rischi.

La resilienza, prima, e la coopetition poi, sono da mesi indicate come alcune delle chiavi per superare il difficile momento - economico e umano, non necessariamente in quest’ordine -

La case history di Burger King

In queste settimane ha fatto scuola il post di Burger King: una foto diffusa attraverso il profilo Facebook che invita i consumatori a rivolgere la propria attenzione anche verso i competitor, incoraggiando gli utenti a ordinare presso catene della concorrenza per supportare il comparto della ristorazione in questo difficile momento di crisi.

Un esempio vincente di coopetition, sia perché ha prodotto un elevato numero di reaction sul post, alimentando – se mai ce ne fosse ulteriormente bisogno – l’awareness del brand e la potenza del messaggio, sia perché ha stimolato la discussione in tutto il mondo social. E questo di per sé è un altro ottimo risultato, visto l’antico adagio “purché se ne parli”. Una strategia di successo che ha scatenato numerosi tentativi di emulazione da parte di aziende e liberi professionisti che l’hanno scelta per cercare di dipingere rapidamente la propria arena competitiva e dissotterrare con ironia l’ascia di guerra nei confronti degli antagonisti. In molti casi si è trattato di un puro esercizio di stile, che potrebbe aver “messo in testa” agli utenti competitor inaspettati, con esiti potenzialmente ancora più dannosi se non inserito all’interno di un piano editoriale che prevede la presenza più o meno stabile degli avversari e un tone of voice privo di livore. La dinamica concorrenziale è sempre stata sfruttata da Burger King, facciamo il più classico riferimento a McDonald, sia per iniziative di carattere benefico sia in chiave ironica. Tanto per fare un esempio recente: a fine 2019 con un video pubblicato su Twitter, Burger King ha svelato di aver inserito un Big Mac in ogni immagine usata per pubblicizzare il Whopper nel Regno Unito nel corso dell’anno, con il chiaro obiettivo di far risaltare le dimensioni ridotte del panino della concorrenza. Non stupisce quindi vedere un riferimento così marcato a un player rivale all’interno della narrazione di Burger King.

Il parallelismo è un po’ datato­, ma vale la pena farlo, prendendo spunto da quanto accaduto agli inizi Duemila negli USA durante le riprese di American Idol, il precursore di X Factor. Gli sponsor all’epoca erano tre: Cingular Wireless (telefonia), Ford e Coca Cola, tutti portatori di un ingente investimento nel programma stimato in circa 26 milioni di dollari annui. Gli studi effettuati in merito all’efficacia degli spot pubblicitari durante la messa in onda del talent-show rivelarono però che esisteva una netta differenza tra il ricordo dell’advertising trasmessa per Ford rispetto a quello attribuito ai prodotti Coca Cola. Addirittura, nel caso del brand automotive gli spettatori ricordavano le pubblicità Ford meno di quanto facessero prima della visione di American Idol. Colpa in particolare di due strategie diverse: Ford compariva soltanto in spot tradizionali di 30 secondi, mentre Coca Cola forniva anche i bicchieri e le bevande dei giudici, insieme ad altri arredi, comparendo quindi in modo molto più integrato nella narrazione dello spettacolo. Al di là della valutazione sulle tecniche di product placement, una delle morali da ricavare è che qualsiasi messaggio un brand voglia lanciare, se non si lega a uno storytelling più articolato, rischia di diventare soltanto un “rumore”, bianco nella migliore delle ipotesi, dannoso in altre.

Fabio Fedele