Packaging: rapporto tra il dentro e il fuori

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C’è sempre una domanda che ci coglie quando ci troviamo di fronte o decidiamo di prendere in mano, comprare o semplicemente osservare un prodotto chiuso in packaging ed è: che cosa ci sarà dentro? Indipendentemente da quello che noi sappiamo già possa contenere, ben aldilà della nostra capacità razionale di voler sapere. “Che cosa ci sarà dentro?” non è solo la domanda che precede la risposta, ma è anche il dubbio che è doveroso avere finché il prodotto sveli il suo contenuto, o l’immagine che lo avvolge ne dichiari il lato nascosto.

 Nella parola packaging infatti è sottintesa o forse compresa una voce del marketing che studia, progetta confezioni il cui scopo è quello di portare al consumatore un prodotto nel modo più “corretto” possibile. Il contenuto deve essere quello che nome, marchio e specificità dichiarano di essere “presenti” sull’involucro esterno, aderenti a quella non detta attesa di chi si avvicina.

 Packaging è dunque contenitore e vetrina. Contenitore che equivale a essere un imballaggio dotato di caratteristiche ben precise: protezione, funzionalità, praticità e capienza. Doti che si riassumono in un’unica descrizione: un buon packaging è quello che è immediatamente inseribile in un contenitore più grande che possa assemblare e portare a destinazione quel numero di confezioni senza che nessuna possa essere compromessa, cioè deteriorata. Possa cioè garantire il perfetto stato di conservazione nel tempo previsto e, possibilmente, anche oltre.

Ma il packaging è soprattutto comunicatore di un interno “misterioso”, appunto vetrina di un interno dalle molte attese. A progettarlo, o anche a studiarlo, una vera squadra di specialisti, i pubblicitari, che fanno del prodotto da vendere una vera mission. Da valutarne il significato e il valore. Il primo messaggio di una misura che deve essere obiettiva, indiscutibile, non oggetto di contestazione.  L’immagine che riproduce, o la scritta che lo nomina, o il brand che lo trasmette devono essere immediatamente leggibili. Non importa la dimensione, spesso un po’ enfatica, l’importante è che sia immediatamente riconducibile al prodotto che incorpora.

Il packaging oggi ha il potere di attirare i compratori più del prodotto stesso. Un connubio tra marketing, design e utilità.

Packaging dunque è lente di proiezione per mostrare l’interno, in una dimensione che se non corrisponde alla reale però la esalta, la fa nostra, la rende seducente. Scopo è dare spessore a quell’immagine che non può che essere piatta. Farci quasi sentire in mano il prodotto che è ormai entrato nel nostro interesse perché ci è apparso davanti agli occhi o lo abbiamo volutamente cercato. E non deluderci.

Il packaging ha come scopo finale quello di vendere, di imporsi tra tutti quelli che dispongono di un contenuto simile o equivalente e che potrebbero essere rivali, di superare la concorrenza e fornici una buona motivazione per deciderci all’acquisto. E poi, aperto il pacchetto, confermare la soddisfazione della scelta e riconfermarla per una prossima volta.

Packaging oggi è quasi sempre oggetto di design, risponde ad esigenze estetiche, ritenute quali componenti di un messaggio che incorpora un testo di spiegazione, di chiarimento e di necessità. Parole a cui va prestata attenzione, perché in esse c’è quello che occorre sapere affinché l’acquisto corrisponda non solo a precise norme di legge, ma anche perché sia da tutti i punti di vista un prodotto sicuro.

Piero Camporesi, storico e antropologo dell’alimentazione, ha osservato la grande attenzione riservata alla preparazione del packaging e ne parla come segno stilistico della stessa modernità, tanto da assumerne un valore addirittura fondante. Camporesi ha sostenuto che la modernità si fonda sull’uso generalizzato delle scatole: dal cibo agli elettrodomestici, dai pacchi postali alle merci, conclude che tutto viaggia attraverso e per mezzo di scatole, più o meno spesse, quasi sempre di cartone.

Luisa Maria Alberini