Chi sa fare oltre a sapere – Intervista a Romano Benini

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Vuole parlarci di lei e del suo ruolo di docente presso le università in cui insegna?

Da anni sono esperto del management su politiche del lavoro e sviluppo; questo mi ha portato prima a tenere alcune docenze in diversi Master e, poi, ha fatto sì che le università mi chiamassero come adjunct professor. Non nasco, quindi, nel percorso tradizionale accademico italiano, ma – come spesso capita ai manager soprattutto all’estero – ho fatto il percorso opposto. Credo che più si facciano esperienze nella vita e più si abbia la possibilità di insegnare ciò che si fa e non solo ciò che si sa. Questo pensiero mi ha portato a fondare un Master sulle politiche attive e sulla gestione delle risorse umane alla Link Campus, fondata dall’ex ministro Scotti insieme all’Ordina Nazionali dei Consulenti del Lavoro, e svolgere diverse attività di docenza. È un corso che ha avuto successo soprattutto tra gli studenti all’estero, da cui proviene il 90% degli iscritti.

Secondo lei qual è il valore aggiunto che porta alle università chi sa fare oltre a sapere?

Secondo me, il valore che porta un esperto nel mondo accademico è così fondamentale che in alcuni Stati è diventato obbligatorio. In Italia, purtroppo, prevale il sistema tradizionale per il quale i ruoli nelle università non vengono assegnati a persone esperte esterne, che ricevono – invece – docenze a contratto. 

Intervista a Romano Benini, Direttore Scientifico del Master in Politiche Attive, di Direzione e Gestione delle Risorse Umane Link Campus.

Quanto è importante l’interdisciplinarietà?

L’interdisciplinarietà è necessaria. Da alcuni anni è diventata la chiave di lettura più importante in quanto ci permette di capire come e perché avvengono le cose. Insegno l’interdisciplinarietà perché è figlia della mia esperienza e posso dire che è essenziale per poter lavorare in team, dove è richiesto avere diverse competenze per riuscire a creare o trovare una soluzione unica che sia il più possibile completa.

In quanto esperto economico dei territori colpiti dai terremoti, può spiegarci questa funzione anche legata al lavoro con il ministero del lavoro e politiche sociali?

Sono consulente per il PNRR e quello che faccio con il mio team è creare una connessione necessaria tra l’opera di ricostruzione fisica e infrastrutturale, la rigenerazione urbana e le misure per il sostegno dello sviluppo economico e sociale. È una sfida fondamentale. Oggi quello che manca all’appeal italiano è la ricchezza che questi territori hanno prodotto per anni e che poi, a causa dei terremoti e crisi economica, è venuta meno. Si è assistito anche allo spopolamento di borghi meravigliosi. Il nostro compito è contrastare anche questo fenomeno, perché le aree interne del Paese sono ricche di tradizioni e competenze, ma dove le generazioni si sono spostate per trasferirsi in contesti urbani. Nel farlo, il tentativo è cercare di invertire il fenomeno della disomogeneità delle aree del Paese anche per dare alle giovani coppie l’opportunità di rimanere in queste aree e stabilirsi con la loro futura famiglia lì. 

A proposito di giovani, quanto bisogna investire sulle soft skills? Qual è il ruolo che le soft skill rivestiranno nei nuovi lavori?

Le soft skills sono l’elemento fondamentale delle competenze richieste oggi, che sono fatte da conoscenza, da abilità e capacità relazionale. Dobbiamo uscire da questo retaggio culturale per cui se facciamo un mestiere teorico è sufficiente la conoscenza e se facciamo un mestiere pratico è sufficiente l’abilità. Dovremmo iniziare a fare uno sforzo complessivo perché le soft skills non sono un addendum, ma un elemento di base. 

Quale suggerimento darebbe oggi ad un neolaureato su come scegliere la propria vocazione e come fare carriera?

La prima decisione è cercare di capire che cosa ci appassiona e, una volta capito, seguire la propria vocazione, che non è altro che “esser chiamati da se stessi”. Ciò significa che bisogna essere in grado di cogliere cosa ci piace fare e capire se quello che stiamo acquisendo ha una dimensione professionale o se si può costruirla. Queste scelte devono essere fatte tra i 16 e i 18 anni, dando retta al proprio istinto e ricordandosi che i desideri degli altri non sono i nostri e possono essere forvianti. Inoltre, si deve essere consapevoli del fatto che spesso si impara sbagliando e che, quindi, se si fallisce in un settore c’è modo di porvi rimedio. Io penso che il criterio di seguire la propria vocazione debba valere anche per le scelte future. Il consiglio è: seguire le proprie priorità e non avere rimpianti. Ad esempio, se la priorità di un giovane è rimanere nel proprio Paese perché potrebbe offrirgli qualcosa che altrove non potrebbe trovare, deve farlo. C’è bisogno di italiani che restino in Italia e che costruiscano qui quelle bellissime cose che vorrebbero fare all’estero. È compito di questi giovani crearsi uno spazio, anche in politica, per arrivare ad avere tali opportunità.

Luca Brambilla