Alla guida di un Master di successo – Intervista a Luigi Serio

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Prof. Serio, lei è da tanti anni il Direttore di un importante Master in Risorse Umane organizzato da ISTUD. Con che criteri è nato questo Master e a quali nuove esigenze sta facendo fronte? 

Il Master nasce ventotto anni fa per rispondere ad un’esigenza dei clienti di ISTUD di inserire risorse giovani che, in qualche maniera, ragionassero con gli stessi standard e gli stessi strumenti. Circa quindici anni fa, ISTUD, tramite un accordo con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che ai tempi era azionista di maggioranza, è riuscito a far accreditare il Master come Master di I livello e a dargli una forma all’interno dell’ordinamento accademico. 

Quali sfide e opportunità ha introdotto la digitalizzazione per gli HR e quali la pandemia? 

La digitalizzazione ha reso automatiche e trasparenti alcune funzioni, come il recruiting. È una rivoluzione molto forte, introdotta – sì – per logiche di efficienza, ma che ha preso forme e dinamiche molto diverse e ha portato o sta portando le aziende ad essere molto più presenti nel sistema di riferimento e nelle interazioni plurime. 

La pandemia ha riportato nella centralità dei processi delle aziende le persone. Ciò vuol dire che da due anni si è assistito ad una centralità della funzione, sia in termini di relazione, sia in termini di posizionamento, che di qualità della relazione con il vertice aziendale.  

Con quali criteri ISTUD ha costruito un Master di successo che dura da ventotto anni e aumenta di anno in anno la sua autorevolezza? 

Il passaggio fondamentale è stato slegare il Master dall’accezione pedagogica, per la quale bisogna imparare da chi sa, e renderlo un luogo in cui partecipanti, aziende, testimoni e stakeholders sono sullo stesso piano e scambiano risorse. Ormai, questo è un processo di scambio che avviene in maniera automatica e contribuisce a generare un ambiente favorevole e a mantenere alta la reputazione.  

Intervista a Luigi Serio, Direttore del Master in Risorse Umane e Organizzazione organizzato da ISTUD Business School.

Quali criteri usa uno studente per scegliere un master e quali criteri dovrebbe usare? 

È una bella domanda, considerando che oggi i ragazzi fanno parte di una generazione molto mutevole. Credo che la scelta del nostro Master sia basata principalmente su tre fattori: il dato apparente, ovvero il placement; la garanzia del contesto, poiché i docenti sono un pezzo simmetrico di un mondo che attenderà gli studenti; la residenzialità, nel senso che il Master in Risorse Umane garantisce un’esperienza sociale a chi decida di frequentarlo.
È un Master che, piuttosto che avere i numeri uno, premia le persone che hanno il potenziale per esserlo; dunque, sotto questo punto di vista, c’è una cura e un’attenzione molto forte verso gli studenti che si iscrivono.  

Quali suggerimenti darebbe ad un giovane che si è appena laureato e che vuole entrare nel mondo del lavoro? 

Faccio una premessa: oggi la mia nuova battaglia professionale è quella di rendere accettabile il lavoro a questi ragazzi. Vedo di essere chiaro. Mi ricordo che circa dieci anni fa, nell’ambito confindustriale, si lavorava sulla percezione che i ragazzi, dopo essere usciti da istituti professionali, non avessero l’azienda come prospettiva di lavoro. Sta accadendo la stessa cosa oggi ai giovani laureati, i quali non ritengono le aziende dei luoghi attrattivi. Nella percezione di questa generazione le aziende sono portatrici di valori non condivisibili e, in quanto tali, sono da evitare. Ciò sta generando un fenomeno da governare, ovvero il vedere l’azienda come un luogo in cui si deve lavorare per guadagnare e vivere.
Oggi, la mia preoccupazione è quella di trasferire un’idea di azienda e di lavoro realistica ma sana ai giovani. Non voglio raccontare che l’azienda è il paradiso, ma nemmeno dire che è l’inferno per definizione. Vediamo che alcune aziende cercano sempre più di rappresentarsi per quello che sono attraverso delle manovre che permettano a loro di farlo al meglio. Però, non è pensabile che il rapporto per le posizioni lavorative sia 1:15; bisogna bilanciare questo squilibrio e impegnarsi a convincere i ragazzi che l’esperienza aziendale è bella, sana, costruttiva e non soltanto aziendale. È complicato, perché è un tratto generazionale figlio di anni di comunicazione monodirezionale.  

A volte i giovani vivono il lavoro in azienda come disagio che, tuttavia, non è compensato da nulla. Questa situazione è quella a cui presto maggiore attenzione: creare le condizioni affinché il cortocircuito tra i sistemi che si mettono insieme sia il più sano e simmetrico possibile. Ma se è basato sui pregiudizi faccio fatica e ci devo lavorare. 

Un altro tema da affrontare è la flessibilità: i giovani cercano flessibilità, ma non sono disposti a darla. Bisogna insegnare ai giovani ad avere un progetto di vita. Ad esempio, svolgere un’attività all’interno del proprio lavoro che può sembrare demansionante deve, invece, essere un modo attraverso il quale sarà possibile raggiungere propri obiettivi futuri. 

Luca Brambilla