Il riordino, non solo della scrivania: Decluttering terza parte

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Siamo giunti al terzo appuntamento di questa serie di articoli dedicati al decluttering: abbiamo visto insieme quanto eliminare e in seguito pulire siano due azioni volte alla preparazione di un nuovo anno sociale, per rendere il nostro ambiente di lavoro più funzionale alle nostre esigenze e fonte di benessere per la nostra salute psichica.

In questo terzo articolo mi dedicherò alla trattazione della terza fase del decluttering, vale a dire il riordino.

Terzo atto: riordinare

Nella mente di molti di noi la parola “riordino” evoca significati negativi legati principalmente all’infanzia, periodo nel quale i nostri genitori e i nostri insegnanti ci ricattavano con premi e punizioni nel caso in cui non avessimo riordinato la stanza, i libri, i giocattoli o i vestiti. Questa azione – impropriamente chiamata riordino – corrisponde in realtà al rimettere a posto le cose dopo averle usate.

Il riordino vero e proprio è invece un ordine mentale, una chiarezza interiore che a che fare senz’altro con l’ordine degli oggetti, ma non finalizzato solo all’estetica, alla comodità o a una forma velata di imposizione di potere, bensì un ordine che parli di noi e che sia motivante per la nostra quotidianità.

Il parere dell’esperta

L’ordine in questo caso è un ordine generativo che permette di fare nascere nuove idee e nuovi progetti. Dal punto di vista pratico il consiglio di Marie Kondo, guru giapponese del riordino, è di farsi bastare i soli raccoglitori che abbiamo a disposizione. La Kondo infatti sostiene che, una volta eliminato tutto il superfluo, gli oggetti rimanenti possano essere sistemati a piacere in pochi contenitori ben scelti, prediligendo i cassetti rispetto ai ripiani e agli armadi. In ufficio questo significa che la nostra migliore alleata sarà la cassettiera piuttosto che la libreria. Sono da mettere al bando tutti quei ninnoli che promettono di riordinare al posto nostro, come piccole scatole, divisori per cancelleria, porta documenti e buste, che invece creeranno solo altro accumulo.

Un altro suggerimento interessante è quello di evitare di etichettare in modo vistoso le cose da archiviare: le scritte in grassetto, colorate oppure troppo grandi in uno spazio finalmente ordinato potrebbero prendere il sopravvento e attirare involontariamente gli occhi sul contenitore invece che sul contenuto, generando distrazione e disattenzione rispetto ai propri obiettivi. Fanno eccezione gli ambienti formativi, naturalmente, se cartelli e poster hanno una funzione di comunicazione.

Parola d’ordine: creatività!

Ricordando sempre che siamo il frutto di due emisferi cerebrali che collaborano tra loro in maniera integrata, possiamo mettere in pratica ciò che più si adatta al nostro stile. Con l’accorgimento, per questo anno, di fare un piccolo passo verso un maggiore benessere. L’essere umano è creativo, nessuno può dirsi sprovvisto di capacità di innovazione: routine e pigrizia sono etichette verbali – spesso appiccicate da altri – che non hanno ragion d’essere.

Brian Tracy, motivatore ed esperto di time management all’americana, dà il sempre valido consiglio della to do list: una lista delle cose da fare ogni giorno, da cancellare a mano a mano che il lavoro si completa. Sono dell’opinione che la lista va bene se non crea ansia e se è personalizzata sulle nostre esigenze. La lista delle piccole incombenze, per esempio, è comoda su smartphone, ma lo stesso non posso dire per i grandi progetti di una carriera. In questo caso ho scoperto il potere focalizzante dello scrivere a mano su un quaderno. Anche una semplice lista assume un’importanza diversa, dovuta alla manualità da esercitare che è sempre creativa.

In questo caso, mi piace aggiungere una frase, una motivazione ad agire in una certa direzione: se non ci si sente pronti a inventare le proprie frasi, suggerisco di consultare Comunicazione Strategica di Luca Brambilla, di cui trovate qui una recensione.

Riordinare è anche concludere

“Dare inizio a un nuovo progetto”, “vento di novità”, “non di solo lavoro vive l’uomo” sono tutte espressioni che nascondono l’ansia di essere multitasking a tutti i costi, spesso abbandonando progetti o idee potenzialmente di successo.

Ci sarebbe molto da dire su questa fuga dalla parola fine, dal punto finale di un processo anche se ben riuscito. I terapeuti americani Bob Mandel e Sondra Ray hanno fornito un’interpretazione a mio parere convincente. Arrivare alla fine significa per l’essere umano riattraversare le sensazioni di impotenza vissute nascendo. Finire non vuol dire morire, viceversa significa venire alla luce e la nascita non è purtroppo quasi mai un evento privo di violenza.

Da adulti, tuttavia, possiamo fare il famoso passo in più e ritrovare quella e-mail mai spedita, quei ringraziamenti mai fatti, quel libro mai concluso, quella telefonata che ci aspetta, riordinando così, oltre al lavoro, la nostra stessa esistenza.

Cecilia M. Voi