Intervista a Ruggero Parrotto, Direttore generale di Fondazione Cotarella

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Come nasce Fondazione Cotarella e qual è il suo ruolo?
La famiglia Cotarella storicamente produce vino ed è legata ai territori della Tuscia e dell’Umbria. Le protagoniste della terza generazione, Dominga, Marta ed Enrica Cotarella, hanno fatto una scelta impegnativa e allo stesso tempo visionaria: nel 2017, con la creazione di Intrecci, una Accademia di Alta formazione per la Sala e l’Accoglienza, e poi, nel 2021, con la nascita di Fondazione. Si tratta di una grande sfida e di una grande opportunità. Perché richiede e permette di dialogare in modo aperto e concreto con le istituzioni, con le altre imprese, con le associazioni, con le scuole, con le famiglie, con i ragazzi che affrontano la sfida di un rapporto più equilibrato con la natura, l’ambiente e le abitudini alimentari. Fare impresa così significa pensare a tutti i possibili stakeholders, e non solo a coloro che condividono interessi nel settore vinicolo. Dominga è il Presidente e mi ha chiesto di affiancarla in questa bellissima sfida, con il ruolo di Direttore della Fondazione.

Quali sono le linee operative per abbracciare questi temi?
Innanzitutto ci siamo dati un metodo, uno stile di comportamento: quello di non spettacolarizzare le storie di chi affronta problemi legati ai disturbi del comportamento alimentare. In Italia, le ultime statistiche parlano di oltre 3 milioni di persone.
Si tratta di un tema delicato, che richiede innanzitutto più attenzione da parte delle istituzioni, a cominciare dai programmi di formazione della scuola dell’obbligo. Si fa ancora troppo poco, si pensa che questo tipo di disturbi siano solo la conseguenza delle mode, del bisogno di apparire, dell’uso superficiale dei social. In realtà, gli studi sulle neuroscienze dimostrano che nella gran parte dei casi siamo di fronte a disturbi psicosociali che richiedono una grande sinergia fra famiglie, mondo della scuola, mondo della salute e mondo del lavoro.
Per questo abbiamo pensato di lavorare in più direzioni:
– abbiamo avviato partnership con i principali centri di ricerca, per alzare il livello di attenzione e di consapevolezza;
– a breve inaugureremo un call center evoluto, con l’obiettivo di creare uno spazio di ascolto e un sistema di orientamento;
– e soprattutto, con i nostri laboratori, con l’Academy di formazione e con la cucina e il ristorante didattico che stiamo realizzando a Montecchio, tra le colline dell’Umbria al confine con il Lazio, cercheremo di sviluppare percorsi ed esperienze che permettano a tanti giovani, e anche alle loro famiglie, di rimettersi in gioco e di riavvicinarsi al cibo, guardandolo non più come il nemico di una volta.
Pensiamo che anche le imprese possano fare molto. Nei loro programmi di welfare, sono sempre più attente alla sostenibilità, all’inclusione, al benessere dei propri collaboratori. Anche il tema dello smart working può incrociare esigenze di maggiore attenzione all’uso degli strumenti digitali, alla sana genitorialità, al dare senso al proprio tempo. Il fenomeno del grande esodo dalle aziende rimette al centro l’equilibrio fra sapere, saper fare e saper essere.

Quali sono i valori che porta con sé e come pensa che la professionalità possa accostarsi al no-profit?
Io ho avuto il privilegio di lavorare in tre grandi organizzazioni: Tim, Poste Italiane e Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Il primo pensiero è il tema della responsabilità. Chi svolge ruoli importanti può togliere o aggiungere, può fare danni o portare valore. Il rapporto sano con il potere va allenato, insegnato. Le esperienze di attenzione al sociale, quando sono serie, rendono le persone e le organizzazioni migliori: osservare la gente, stare in mezzo alla sofferenza, ascoltare la fragilità e il bisogno di speranza, richiede di essere più aperti, più sensibili, più capaci di dialogare con la complessità del mondo, con ironia, tolleranza, umiltà. La sfida che affrontano tutti i giorni i medici. Curiamo soltanto o ci prendiamo cura?
In merito al no-profit, credo che sia meglio parlare di “profit sociale”: per fare cose utili bisogna avere mezzi e strumenti. Quando le famiglie e gli imprenditori lo fanno, riescono a dare un senso ulteriore alla loro azione. Anche i clienti, i dipendenti e gli stakeholders diventano più complici, si interessano e si innamorano, si fanno coinvolgere. È un cambio di prospettiva illuminante, straordinario.

Cosa direbbe a un giovane che sta per entrare nel mondo del lavoro?
Gli direi di ascoltarsi, di sentire la propria vocazione e chiedersi: “Cosa mi fa innamorare?”, “Per cosa sono portato?“ e gli suggerirei di darsi un metodo e di essere concreto perché la vita ha un inizio e una fine. Bisogna valorizzare il Kairos rispetto al Kronos: è importante dare senso al proprio tempo.
Gli direi di non lasciarsi scoraggiare dalle cadute, perché cadere fa stare con i piedi per terra.
E gli direi di non essere mediocre e di imparare a incontrare persone belle; di trovarsi un mentore; di saper chiedere aiuto e di sviluppare un sano altruismo.

Luca Brambilla