Quando e come uscire dalla comfort zone

Si parla molto di comfort zone, ma occorre avere ben presente cosa significhi uscirne e con quali modalità nel mondo del lavoro

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Una parola che sta diventando sempre più di tendenza e che ritrovo spesso sia durante i colloqui di lavoro, sia in aula quando faccio lezione, è comfort zone. Tipicamente, le persone usano questo termine all’interno dell’espressione “voglio uscire alla mia comfort zone”.

Recentemente, sono stato chiamato da un’azienda come profiler per selezionare un possibile top performer tra dieci profili junior. Queste persone erano molto differenti fra loro per natura e storia personale, ma tutti, puntualmente, mi hanno ripetuto di voler uscire dalla famosa comfort zone. Ogni volta che sentivo questa espressione mi mostravo stupito e domandavo in maniera provocatoria come mai non amassero stare al “calduccio” in una zona di comfort. Al che, quasi indignati, i vari candidati mi hanno spiegato che, per poter crescere, bisogna continuare a uscire dal proprio guscio, come fanno i paguri quando sono diventati troppo grossi, andando a cercarsi dunque un’altra conchiglia.

A questo punto i dialoghi fra me e i singoli candidati proseguivano con un elenco, da parte mia, di tutte le mansioni estremamente sfidanti che avrebbero dovuto gestire se fossero stati effettivamente assunti in quell’azienda, numero uno per fatturato in Italia in quel mercato. Dopo aver finito l’elenco chiedevo loro di suggerirmi nuove mansioni, sfide e problematiche da affrontare per rendere ancora più sfidante il lavoro. Arrivavamo così a definire un contratto estremamente favorevole per l’azienda, secondo il quale loro avrebbero dovuto lavorare un numero esagerato di ore, guadagnando poco e con vincoli di mandato pressoché irraggiungibili. Una volta delineato questo percorso dicevo loro che sarebbero sicuramente usciti dalla loro comfort zone se lo avessero firmato e, regolarmente, veniva meno l’esuberanza iniziale del colloquio.

Quando e come uscire dalla comfort zone

Questo aneddoto particolare lo condivido perché non c’è nulla di male nello stare in uno spazio che definiamo comfort zone, anzi, ritengo che avere un luogo sicuro in cui tornare dove poter svolgere mansioni che sappiamo concludere in maniera ottimale e senza stress è utile a tutti. È proprio dalla sicurezza di avere una casa che si può partire per esplorare il mondo, e quando lo si fa bisogna attrezzarsi bene, verificando nel dettaglio se si ha in mente non solo la meta, ma anche i mezzi e gli strumenti per poterla raggiungere, altrimenti non è un viaggio, ma un suicidio.

Ecco, allora, che dopo aver delineato un percorso assurdo con quei candidati abbiamo riprogettato insieme un percorso partendo da quello che effettivamente sapevano fare, spingendo un po’ più in là la loro resistenza e il numero di responsabilità sopportate in modo tale che potessero affrontare un percorso sfidante ma anche motivante e, soprattutto, gestibile. Alla fine, ho indicato come migliore un candidato che si è presentato in maniera più equilibrata, senza sottovalutarsi e senza fare overselling delle proprie competenze.

Si comprende bene, quindi, come espressioni usate troppe volte in maniera banale e superficiale come comfort zone indicano in realtà un invito profondo alla continua crescita personale e professionale che deve essere messa in atto e, possibilmente, seguita con grande attenzione e senza strattoni. Il mondo, quindi, non si divide in persone che stanno nella loro comfort zone o che ne sono completamente uscite e si trovano in balìa di una tempesta, ma vi è anche una terza categoria, quella a cui appartengono le persone che per comfort zone intendono la possibilità di bonificare ogni un nuovo pezzetto di terra, allargando così i campi coltivati da cui poter trarre nutrimento. È di questa terza categoria che le aziende hanno sempre più bisogno.

Luca Brambilla

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