Leadership: scontrarsi con dicotomie

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Sebbene, derivando dall’inglese “to lead” che significa “guidare”, il termine leadership sia di immediata comprensione etimologica che conseguentemente porta a definire un leader come colui / colei che è capace di «condurre le persone verso una meta»1, a ben guardare si tratta di una parola con struttura profonda. Partendo dal presupposto che la leadership detenuta da un CEO, un Manager, un Responsabile o anche un parigrado sia decretata dai suoi interlocutori, è molto probabile infatti che ognuno di essi riconosca in tali figure questa capacità per motivi e fattori diversi.

Per esempio, un CEO potrebbe essere considerato un vero leader dal suo team per saper prendere decisioni lungimiranti; un Manager sarà un leader nella misura in cui saprà motivare i suoi collaboratori spingendoli a conseguire risultati stupefacenti; la leadership di un Responsabile potrebbe infine riflettersi nell’essere pronto a prendersi la colpa per qualcosa che non ha funzionato e a riconoscere il merito delle persone con le quali lavora al raggiungimento di un obiettivo.

Se, dunque, sono gli altri a giudicare la nostra leadership, cosa si può fare per essere percepiti come dei leader? La risposta, come spesso accade, proviene dalla Comunicazione Strategica, in particolare dall’Arte delle Domande Strategiche: per capire in che modo esercitare o potenziare l’esercizio della propria leadership è necessario chiedersi “che tipo di leader voglio essere?”.

Nel tentare di trovare delle risposte, l’osservazione del contesto in cui si opera è fondamentale e conduce a scontrarsi con alcune dicotomie che caratterizzano il mondo del lavoro oggi.

La prima di queste contrappone i risultati alle persone. Nelle aziende, nelle società e nelle organizzazioni sempre più spesso ciò che conta è il risultato che si ottiene. Secondo Paolo Carmassi, Co-fondatore di Palestra della Scrittura, questo modo di ragionare trasforma il lavoro in fogli Excel2 e non valorizza le persone e il tempo che queste investono, entrambi fattori determinanti di quel risultato. Che tipo di leader vogliamo essere, quindi, uno che guarda solo ai risultati o colui dà valore al percorso e alle persone da cui questi sono scaturiti?

Similmente, considerando la dicotomia “autonomi vs. automi”, ci si deve chiedere: in qualità di leader che tipologia di collaboratori preferisco avere? Voglio lavorare con persone che ragionano e agiscono in modo autonomo e, con senso critico, dicono anche “no” oppure voglio che chi collabora con me sia la mia “brutta copia”, mettendo in pratica alla lettera le indicazioni che fornisco?

Riconoscere e concedere autonomia alle persone non solo è una dimostrazione di fiducia, sempre apprezzata dai collaboratori, ma è anche la forza propulsiva attraverso la quale si realizza la loro crescita professionale e che porta poi loro a sentirsi quasi degli “owners3, cioè proprietari, di ciò che fanno in azienda. Quando una persona ha questa sensazione, diventa capace di prendere in mano le redini e trainare piuttosto che seguire.

Al contrario, chi avverte un senso di ingiustizia – come dimostrano le neuroscienze – è demotivato. L’ingiustizia, essendo percepita come minaccia, stimola la parte primitiva del cervello umano adibita alla sopravvivenza che oscura la motivazione, la creatività, lo spirito di squadra e qualsiasi altra cosa4.

All’ingiustizia si oppone la correttezza. Secondo Marco Alverà, già Amministratore Delegato di Snam, in un’organizzazione la traduzione di correttezza è lavorare in un posto dove non ci si deve preoccupare per i risultati a breve termine poiché non si viene penalizzati per un errore commesso in buona fede; correttezza vuol dire valutare le persone per ciò che cercano di fare e non per il risultato che conseguono; correttezza significa che qualsiasi cosa succeda l’azienda sostiene i suoi dipendenti.

Come per l’ingiustizia, dal punto di vista neuroscientifico, quando le persone percepiscono correttezza il cervello umano rilascia una sostanza che infonde gioia e piacere: è il piacere di sapere che lavorare per un sistema corretto significa avere l’autonomia di poter fare ciò che si ritiene più giusto e non solo ciò che porta vantaggi o risulta essere più comodo e veloce.

Che tipo di cultura vogliamo promuovere, allora, all’interno della nostra società, una basata sull’ingiustizia o una che crede e diffonde correttezza?

Conviene farsele ogni tanto queste domande e darsi delle risposte.

Antonella Palmiotti

  1. L. Brambilla, Dal talento al successo, ACS Editore, Milano 2021, p. 169.
  2. Paolo Carmassi – Delegare, controllare, correggere: tre buone pratiche da allenare
  3. Ibid.
  4. The surprising ingredient that makes businesses work better