Piccole storie in diretta dalla metropoli

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Dietro una vetrina  

– Scusi, per favore, dov’è via Vallozze?
– Sì, via Vallazze.
– Sa forse dov’è un negozio che vende cose orientali?
– Sì, certo. Cose un po’ folli.
E sto attenta a non esprimere un giudizio diverso, perché avrei voluto dire molto di più.
– Sì, è proprio quello!
Gli occhi le si illuminano. Sto per darle l’indicazione che cerca. Vedo che ha fretta. Sono le sette e un quarto di sera. Probabilmente ha solo un quarto d’ora di tempo per arrivare in tempo.
– Ecco, arrivi fino al semaforo e poi giri a destra, circa venti metri.
La ragazza mi ringrazia e si avvia, quasi di corsa.
Penso a quello che non posso non pensare tutte le volte che passo davanti a quella imprevedibile vetrina. Scimitarre, gonne di velo che mi rimandano a danze orientali, collier o collane d’argento che appartengono a storie di concubine che allietano le notti dei sultani o almeno di quelli che crediamo tali dalle pagine delle Mille e una notte. Penso a chi mai avrebbe potuto varcare quella soglia e acquistare un capo così inutile per notti così inutili. Cerco di capire chi è quella ragazza, dalla faccia pulita, dal sorriso aperto, dal vestito così normale. Perché cercava con tanto affanno quel negozio? Ero stata proprio io a dirle dove lo avrebbe trovato.
La risposta mi manca. Però adesso so che una persona interessata a quel negozio, probabile cliente, l’ho trovata. E non era certo chi avrei potuto immaginare.

Pochi secondi prima di scendere

1° marzo in autobus. Sto per scendere, la mia fermata è a pochi secondi. Mi volto colpita da una frase:
– Vorrei un mondo più piccolo.
Non faccio fatica a riconoscere la persona che l’ha appena pronunciata. Sta chiacchierando con un altro uomo, più o meno la stessa età. Forse sessant’anni, non molto di più, normale, anzi normalissimo. Cioè senza nessuno di quei tratti che possano spiegare quella frase. La città è grande. L’altro non dice niente. Lui prosegue:
– Strade piccole, case piccole. Io piccolo, una formica. Raggiungerei una mosca e mi arrampicherei sul suo dorso e mi farei trasportare in volo. Una goccia d’acqua basterebbe per un anno intero.
Guardo il viso di quell’uomo nel tentativo di scoprire chi potrebbe essere. La stessa impressione di prima. Nessuno indizio di stranezza, nessun segno rivelatore dell’identità o della professione.
La porta dell’autobus si apre. Devo scendere e mi dispiace. Continuo a pensare a quelle parole “vorrei salire su una mosca e farmi portare lontano” … Ma dove si può andare poi così lontano per non ritrovarsi ancora dentro un mondo che è ancora troppo grande per un uomo che sogna di trovare un confine, un limite invalicabile alla sua vita?

Dalla scuola di teatro

Passo davanti alle finestre semi chiuse della scuola di teatro. Una palestra in un seminterrato dove allievi e allieve con molti sogni e non sempre virtù cercano di esprimersi senza ben sapere che cosa vogliono davvero. Una voce di tanti, insieme, tutti dai toni giovanissimi, ripetono:
– Televisione… televisione… televisione…
– Basta con questa maledetta vita di merda.
– Merda… merda… merda…
In modo automatico, ripenso alle parole di Vasco Rossi, più o meno di trent’anni prima “Voglio una vita spericolata, di quelle che non dormi mai”. Continuo la mia strada, sullo stesso marciapiede incrocio un ragazzo che parla al telefono. Sta dicendo:
– Qualche volta è piacevole: qualche altra no.
Tre modi diversi per dire la stessa cosa o tre percorsi senza guida per attraversare quel salto nella propria vita che separa tutti dall’incontro più atteso: quello con un se stessi, perfetto?

Luisa Maria Alberini