Quale accessibilità senza inclusività?

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Nel pomeriggio del 21 marzo si è tenuto il primo incontro del ciclo di webinar “Elementi base di una comunicazione accessibile e inclusiva”, organizzato dal Centro Studi di Comunicazione Strategica e dal suo Direttore, la dott.ssa Eva Filoramo, e moderato del Vicedirettore di ACS Editore, Carlo Sordini. Ad intervenire per parlare dell’accessibilità e dell’inclusività nel settore della comunicazione sono state Alice Orrù, copywriter e traduttrice specializzata in accessibilità web, e Valentina Di Michele, esperta di UX Writing & Content Design.

Accessibilità e inclusività sono termini appartenenti all’epoca che stiamo vivendo e spesso vengono usati insieme come se fossero un binomio inscindibile. Che differenza c’è tra queste due parole così importanti?

«L’accessibilità è qualcosa di misurabile» – dice Di Michele – riferendosi all’esistenza di una normativa che, a vari livelli (nazionale ed europeo) definisce una serie di regole, di indicatori e di standard da rispettare che permettono ai sistemi digitali o ai prodotti testuali di essere percepititi e utilizzati da persone che sono affette da una disabilità permanente o temporanea. L’inclusività, invece, ha a che fare con un riconoscimento dell’individualità e delle scelte dell’altro; quindi, è molto legata a come ognuno di noi si percepisce e guarda la realtà. La differenza tra i due termini del binomio sta nel fatto che «l’accessibilità riguarda il modo del poter fare qualcosa, mentre l’inclusività ha a che fare con il mondo della volontà: voglio che l’altra persona possa far parte di quell’esperienza e voglio riconoscerla nella sua modalità di viverla», spiega poi.

Un prodotto accessibile deve contemplare anche l’inclusività perché solo così si creerà qualcosa per scelta e non in quanto imposto dalla legge. Invero, come sostiene Di Michele, se non legassimo i due principi insieme, la bellezza e l’importanza dall’accessibilità si perderebbe.

Dello stesso parere è anche Alice Orrù, la quale rivela che nel corso delle sue docenze come formatrice ripete spesso che non esiste accessibilità senza inclusività. «L’uso sempre più crescente dell’aggettivo “inclusivo” nel dibattito non ci esime dal fatto che tutto ciò che è pensato per essere inclusivo debba essere anche accessibile. È fine a se stesso parlare di “inclusione” quando non si fa il tentativo di poter dare alle persone la possibilità di poter fruire dei contenuti in modo accessibile».

E come si fa, allora, a creare qualcosa di accessibile ed inclusivo? Qual è la ricetta da seguire? Simili interrogativi trovano risposta nella metafora della coperta corta, come l’ha definita Orrù, che insegna che non esiste un decalogo perché la pluralità di esperienze, contesti e situazioni che viviamo ogni giorno – sia a livello professionale che personale – è talmente eterogenea che sarebbe impossibile unificare tutto e stabilire una regola generale che possa essere applicata sempre.

Quello che si può fare, partendo da questa considerazione e verità, è cercare soluzioni per una categoria di persone che presentano una determinata disabilità e, da lì, gettare le basi per qualcosa che funzioni per tutti. Si pensi, ad esempio, ai sottotitoli nei film che originariamente sono nati per far sì che potessero essere guardati anche da un non udente e ora sono utilizzati anche da persone che non hanno questo tipo di disabilità ma che vogliono vedere i film in lingua originale.

È bene comunicare questi concetti e fare un’opera di divulgazione scientifica, poiché la comunicazione e, per estensione, «il linguaggio è un atto politico», nel senso che lo strumento della parola può e deve essere usato con maggiore responsabilità poiché, come afferma Di Michele, «dentro alle parole c’è il nostro modo di interpretare la realtà» e, quindi, attraverso di esse si può diventare portatrici della propria visione, dei propri valori, dei propri ideali e, perché no, sensibilizzare gli altri su un tema così complesso quanto rilevante.

Sostenere che il linguaggio sia un atto politico significa anche che serve a fare politiche, come ricorda Orrù. Se il linguaggio che viene utilizzato non è inclusivo diventa una barriera che, di fatto, nega dei diritti alle persone; si pensi, ad esempio, alle professioni per cui esiste la versione solo al maschile. Viceversa, ogni volta che usiamo linguaggi inclusivi stiamo riconoscendo a tutti i propri diritti e stiamo comunicando loro che hanno un proprio posto nella società e nel mondo.

Antonella Palmiotti